Andreas-Salomé Lou - 2009 - Devota e infedele. Saggi sull'amore by Andreas-Salomé Lou

Andreas-Salomé Lou - 2009 - Devota e infedele. Saggi sull'amore by Andreas-Salomé Lou

autore:Andreas-Salomé Lou [Andreas-Salomé Lou]
La lingua: ita
Format: epub, mobi
Tags: Literary Collections, Essays
ISBN: 9788817028998
Google: Pw1yPgAACAAJ
editore: Bureau Biblioteca Univ. Rizzoli
pubblicato: 2009-03-14T23:00:00+00:00


IL TIPO DONNA

I

Ciò che mi prefiggo qui è solo una breve passeggiata del pensiero: all’inizio lungo un cammino personale dai confini ben precisi, poi mirando a un orizzonte più ampio per giungere infine, anche se solo qualche passo più in alto, a una visione d’insieme obiettiva.

Per quanto riguarda il mio tratto di strada, devo cominciare col dire che il mio primissimo ricordo ha per oggetto i bottoni: ero seduta su un tappeto a fiori e aperta davanti a me c’era una scatola marrone, in cui potevo rovistare quando ero stata ubbidiente o la mia vecchia bambinaia non aveva tempo da dedicarmi. Conteneva bottoni di vetro, di osso e variopinti dalle forme fantastiche. La scatola dei bottoni era – all’inizio ingenuamente, poi ironicamente – la «scatola delle meraviglie», e da principio per me rappresentava anche la meraviglia in sé, poi – forse perché in seguito mi insegnarono le parole rispettive – nei bottoni ammiravo altrettanti zaffiri, rubini, smeraldi, diamanti e altre pietre preziose, tanto che ancora oggi la parola russa per «gioielli»,1 il suo suono, evoca in me una straordinaria abbondanza di ricordi. I gioielli-bottoni rimasero a lungo la quintessenza di ciò che ha valore e pertanto si raccoglie e non si dà via (come di fatto succedeva con i bottoni alla moda, relativamente costosi che, smesso l’abito, venivano conservati). E mi pare che questa immagine dei bottoni quali oggetti preziosi sia riconducibile a una ancora più antica, secondo la quale essi rappresentavano parti ancora più inalienabili – pezzetti di mia madre, per così dire (cioè del suo vestito, con i cui bottoni potevo giocherellare quando mi teneva sulle ginocchia) o forse della mia (a me cara) balia, al cui seno, dietro l’abito aperto, imparai praticamente a conoscere il primo rubino. Ricordo almeno che, quando i tesori-bottoni si combinarono in me con una fiaba che mi avevano raccontato, in cui essi simboleggiavano una questione più interiore, ritrovai dentro di me questa nuova concezione come un possesso stabile. La fiaba narrava di qualcuno che si addentrava in una montagna incantata e al suo interno doveva passare attraverso tutti i regni delle pietre preziose («zaffiri, rubini» eccetera) per raggiungere una regina che aspettava di essere liberata da un incantesimo. Perciò, quando feci il mio primo viaggio all’estero, in Svizzera con i miei genitori, non mi stupì affatto di sentir chiamare una montagna «Jungfrau», vergine. Da allora in me si consolidò l’immagine di una montagna altissima e tutta ricoperta di ghiacciai, che nelle sue viscere serbava innumerevoli bottoni. Qualche tempo dopo, una seconda impressione di viaggio mi richiamò alla memoria quell’immagine: accadde quando insieme a mio padre visitai una miniera di salgemma nei pressi di Salisburgo, dove dovetti sfrecciare a tutta velocità fino al fiabesco lago luccicante sul fondo, seduta a cavalcioni e orrendamente schiacciata tra lui e i minatori. Arrivai alla fine di quella corsa piuttosto malridotta, urlando di paura. Mi sembrò indubbio che il sale luccicante alle pareti non potesse essere che un nome collettivo per designare pietre preziose di ogni sorta



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